L’alchimia tra chef e uomo

Il conseguimento della prima stella Michelin, la pubblicazione del libro “Mise en place” edito da Zafferano, la convocazione a Identità Golose: così Stefano Baiocco entra nel firmamento delle grandi stelle.

Stefano Baiocco e Villa Feltrinelli. Lui, lo chef, giovane, appassionato, determinato; lei, la villa, maestosa, altera e matrona di Gargnano, sul lago di Garda. Un connubio dove innovazione e tradizione si incontrano, si fondono e si distinguono. Dove la cucina di Stefano, marchigiano poco più che trentenne, esalta e lo splendore di una location quasi fiabesca. Grazie ad un curriculum che vanta collaborazioni con i grandi nomi della scena internazionale – da Ducasse a Roca, da Adrià a Gagnaire, e da Barbot ad Aduriz – Baiocco è dal 2004 executive chef del Grand Hotel Villa Feltrinelli. Un’esperienza importante che ha messo in risalto le sue qualità – precisione, professionalità, disciplina, modestia, caparbietà e capacità di essere leader – e ha portato al conseguimento della prima stella Michelin. Un riconoscimento importante, frutto di un talento unico, che sfocia in una cucina elegante, pulita e quasi carnale. I suoi piatti sono un equilibrio di sapori, colori e profumi dettati dall’innato senso estetico e dal perfezionismo. La cura e la passione per le erbe officinali, che segue e raccoglie personalmente nel piccolo giardino loro dedicato, lo contraddistinguono rendendo gli elaborati leggeri ed equilibrati. Un’alchimia tra il suo essere chef e il suo essere uomo. Incontro Stefano in occasione di Identità Golose: lui è come la sua cucina, fresca, immediata e misteriosa. Dal nostro incontro nasce questa intervista.

Professione chef: come ci sei arrivato e cosa significa per te?

Tutto nasce per caso, come le cose migliori, anche se il fascino di mio nonno Umberto, cuoco d’altri tempi, fiero, benvestito e col pancione, ha lasciato una traccia influenzando la mia scelta. All’inizio rappresentava un lavoro sicuro unito alla possibilità di viaggiare, solo in seguito, entrando a far parte di grandi brigate e lavorando in rinomate cucine, ho compreso il significato di prestigio e competizione.

Tradizione o creatività? C’è chi sostiene l’esistenza di due cucine: una scientista e l’altra di tradizione. Da che parte ti schieri?

Nel mezzo. Non è una scappatoia, semplicemente la constatazione coerente e consapevole del lavoro che faccio e del posto in cui lo faccio. Allo stesso tempo un modo per restare aggiornato e non perdere mai il treno.

Si parla molto di esplorazione del gusto: esistono nuovi gusti da sperimentare?

Esplorare è fondamentale, si evita il rischio di fossilizzare il palato. Abbiamo il dovere di mantenere viva la curiosità, viaggiando, aggiornandoci per scoprire nuovi profumi e nuovi gusti. Senza oltrepassare i limiti perché non amo estremismi di alcun genere. Ciò che è importante è la memoria del gusto: sì a sperimentazione e ricerca di nuove sensazioni, senza dimenticare, però, le nostre radici e i gusti che hanno contraddistinto la cucina per secoli.

Il 2007 è stato per te un anno coronato da grandi successi: la stella Michelin, l’uscita del libro, l’invito a partecipare a Identità Golose. Come hai vissuto questi mesi?

Sono felice ma non mi sono fatto travolgere dagli eventi. Ho continuato a fare quello che facevo gli altri inverni, ossia stage di formazione e viaggi, iniziando, a novembre, con una promozione ad Hong Kong, seguita, a fine anno, da uno stage in Spagna.

La cosa più curiosa è che per anni Villa Feltrinelli è rimasta nell’ombra, i critici delle grandi guide non ci hanno preso in considerazione. Ora, improvvisamente, tutti bussano alla nostra porta. E questo, purtroppo, succede spesso: ho molti colleghi che sono seri professionisti, appassionati del loro lavoro, pressoché ignorati dal mondo che “conta”, a favore dei soliti, o quasi soliti, noti.

Quanto è importante l’ingresso nel firmamento Michelin?

Quando è uscita la Guida è stato un vero terremoto: chiamate, messaggi, e-mail, fax, tra complimenti e congratulazioni, più o meno sentite. Per me la stella è orgoglio e soddisfazione: chi non vive nel nostro mondo fatica a capirne l’importanza. È il distinguersi dalla massa – anche se oggi ne sono necessarie almeno due – è quel riconoscimento che ti posiziona un gradino più in su nella piramide della ristorazione italiana. Inoltre, per molti ristoranti, magari di provincia, è anche ritorno economico. Spero che questo traguardo porti a Villa Feltrinelli una clientela ancora più selezionata, attenta alla tavola oltre che alla bellezza del luogo.

Perché hai deciso di raccogliere le tue esperienze e le tue conoscenze in un libro?

L’idea era presente da tempo ma, tra il pensare e il realizzare il volume, sono passati diversi anni. Le cose da prendere in considerazione sono tante: chi ti aiuta economicamente, chi cura la fotografia, chi corregge e traduce i testi, chi cura la grafica e chi lo pubblica. Se pensi che il tutto è un extra che si aggiunge al lavoro quotidiano, è facile capire quanto l’impresa sia stata impegnativa, ma gratificante. Ho voluto questo libro per cercare di uscire dal guscio, per farmi conoscere e far capire il mondo in cui vivo, il mio modo di fare e di pensare, senza la pretesa di insegnare qualcosa a qualcuno.

Com’è stata l’esperienza a Identità Golose?

Per me, che non sono soggetto a tali platee, è stata un’esperienza indimenticabile. Sarà che era la mia prima apparizione in una manifestazione del genere o perché il mio intervento è stato durante la giornata d’esordio, ma l’atmosfera che si respirava era elettrizzante. Ho conosciuto persone nuove che parlavano la mia “stessa lingua”, e non mi riferisco solo a colleghi, ma a giornalisti, fornitori, produttori e semplici appassionati.

Con quale criterio hai scelto le proposte?

Il tema con il quale ho dovuto confrontarmi era quello della Lombardia e con le mie ricette ho cercato di illustrare quella che è la “mia” di Lombardia, ovvero l’area in cui opero, quella del lago di Garda. Ne è uscito un piatto la cui preparazione tocca parte dei prodotti tipici di quest’area riproposti in una versione più originale: il coregone, pesce di lago, con una pelle lavorata con caramello di capperi, crema di limoni nostrani – dove la parte utilizzata è quella bianca amara –, spuma di olive, sempre della zona, avvolta in una polvere di olive a ricreare un finto tartufo e dei bon bon di pasta soffiata, foglie di oxalis, per dar croccantezza al pesce. L’altra proposta, invece, “la semplice insalata” esprime l’amore che nutro per il mondo delle erbe aromatiche, dei germogli e dei fiori commestibili. La parola “semplice” sta ad indicare la facilità della preparazione, ma è allo stesso tempo provocatoria se si pensa che per realizzarla sono state usate circa 130 differenti foglie di insalate, germogli ed erbe aromatiche, e quasi 40 petali di fiori eduli diversi. Il tutto adagiato su un croccante di champignon e condito con olio del Garda e una segatura di patate (grattugiate con un microplane e fritte).

Col senno di ora riproporresti le stesse cose?

Assolutamente sì. Ho provato – cercando di essere il più coerente possibile – a dire chi sono, in che contesto lavoro e quali sono le mie passioni. E queste scelte si sposavano alla perfezione con l’intento.

Il tuo curriculum vanta collaborazioni prestigiose con alcuni dei più importanti nomi della scena internazionale, e da poco sei stato per uno stage a Marbella, al Calima di Dani Garcia. Quanto significa una formazione costante sul campo?

Da circa dieci anni il mondo della ristorazione in genere, e la cucina in particolare, sta andando a gran velocità, e i cambiamenti, sostanziali, sono sotto gli occhi di tutti. Credo che sia nostro dovere informarci con stage, promozioni, congressi e quant’altro ci permetta di essere aggiornati e di capire in che direzione stiamo andando. Che poi si scelga di sposare cucine più o meno innovative, è un discorso a parte. Conoscenza e consapevolezza in primis: sta poi ad ognuno decidere ciò che è giusto o sbagliato in base alla tipologia di ristorante, alla location, al tipo di clientela e alla propria filosofia.

Come nasce un tuo menu?

La cucina è un mezzo di comunicazione che mi permette di trasmettere le mie emozioni: un menu, infatti, è il riflesso delle mie sensazioni.

Quale importanza assumono il dessert e la piccola pasticceria?

Sono fondamentali nella composizione di un menu e seguono lo stesso filo logico della cucina. Non credo che quest’ultima prevalga sulla pasticceria, o viceversa, piuttosto ritengo entrambi indispensabili per far sì che una serata al ristorante diventi un’esperienza unica. Il tutto, ovviamente, coadiuvato da un ottimo servizio.

La carta dei dolci è creata separatamente o insieme al resto del menu?

Salato e dolce viaggiano parallelamente. Un dessert, come un’entrata o un primo, viene cambiato o modificato a seconda della stagione e della reperibilità dei prodotti. È normale che nei periodi caldi ci si orienti su piatti freschi e leggeri, magari utilizzando frutta di stagione, agrumi ed erbe fresche, preferendo, invece, preparazioni più cariche per i periodi freddi. I miei dessert non sono mai troppo ricchi né di materie grasse né di zuccheri, per venire incontro alle esigenze dei clienti, sempre più attenti all’estetica e alla salute.

Nella tua cucina è più il dolce ad aver contaminato il salato o viceversa? Esiste un punto di incontro tra i due e se sì, in cosa si concretizza?

Non c’è un vero punto di incontro e non lo cerco neanche. Preferisco che le due cose restino distinte sebbene, come detto prima, debbano seguire lo stesso concetto e filo logico. A volte, però, compaiono le influenze dolci-salate: penso al crème caramel di fegatini di pollo o all’uso di ingredienti che, sebbene appartengano al mondo salato, utilizziamo in pasticceria come erbe, sale, aceto balsamico e olio d’oliva. Abbinamenti che diventano usuali in molte cucine, passando per “classici”.

Dolce, salato, amaro, acido: cosa preferisci e come si mescolano?

Preferisco non usare il termine mescolare: tutti questi componenti rientrano sì, nei miei piatti, restando, però, ben distinti. È importante che il piatto sia pulito: non amo la comunione di troppi sapori. Ciò non significa che non mi piaccia fare e osare abbinamenti, semplicemente non sono propenso ai gusti estremi. Non amo le note amare, né quelle troppo dolci e stucchevoli: adoro quelle acide, piccanti e soprattutto quelle sapide. Il solo pensiero del chicco di sale mi fa venire l’acquolina in bocca.

C’è una ricetta alla quale sei particolarmente legato?

Non mi piace “legarmi” ad un piatto: la parola stessa è sinonimo di qualcosa che è fermo, immobile, che non ha possibilità di sviluppo. Sono gli stessi clienti che, richiedendo piatti delle carte passate, mi tengono “ancorato” a determinati elaborati. Un legame questo che ha un sapore tutto particolare, segnato dalla soddisfazione e dal riconoscimento. 

Di cosa non potresti mai fare a meno in cucina?

Della mia brigata. Potrei rinunciare a qualsiasi ingrediente e attrezzatura, cercando di ovviare a tali mancanze con altre soluzioni, ma il rapporto con i miei ragazzi è in prima linea. Primo perché senza di loro non potrei fare lo stesso tipo di cucina e, soprattutto, farlo in questo modo; perché grazie ad alcuni, posso sviluppare nuove idee e non ultimo il fatto di poter condividere con la troupe le stesse fatiche e passioni.

 Il dressage, la mise en place, che importanza assume nella preparazione di un piatto?

Il termine “mise en place”, oltre al significato vero e proprio della parola, è sinonimo di pulizia, rigore, professionalità ed organizzazione; elementi fondamentali non tanto per lo sviluppo di una ricetta, quanto del nostro lavoro a 360 gradi. Tutto comincia dalle cose più semplici: un cuoco non sarà mai ben organizzato, se la mattina parte con l’armadietto in disordine, indossa una divisa sporca, trova i coltelli non allineati e affilati nel cassetto, se la dispensa è un caos e il frigo non rispecchia la giusta disposizione.

Il ringraziamento più grande a chi è rivolto?

Dovrei ringraziare tante persone, chi per un motivo chi per un altro: chi mi ha trasmesso la passione, chi mi ha insegnato a cucinare e chi, invece, mi ha insegnato la professione, chi mi segue, chi crede in me, chi ha la pazienza di starmi ad ascoltare. Questa volta, però, il ringraziamento più grande lo faccio alla mia testardaggine e alla mia curiosità.

Progetti futuri?

Quest’ultimo anno è stato a livello professionale ricco di soddisfazioni e riconoscimenti. Voglio restare con i piedi ben piantati a terra e preferisco non idealizzare progetti né a lungo né a medio termine: ciò che mi preme maggiormente, ora, è la perfetta organizzazione per l’imminente stagione, cercando di essere all’altezza delle aspettative.

Un sogno nel cassetto?

Di sogni ne ho, e molti, ma preferisco tenerli per me. Mi hanno detto che a raccontarli non si avverano!

Monica Onnis

Foto Studio Verde